Paura noi Veneti? Ma anche no…

*di Adina Agugiaro

Correvano i primi ‘50, la guerra era finita da qualche anno ma non dimenticata nelle ferite ancor vive del paesaggio urbano e rurale. L’Italia era divenuta una Repubblica con una nuova Costituzione. L’estate noi cugini andavamo per mesi in vacanza dal nonno, che aveva un mulino nell’Alta padovana, a pochi chilometri da Camposampiero. Con una casa enorme, un giardino, l’orto, una stalla per mucche e cavalli, un pollaio delle meraviglie e, aldilà d’un cancello, l’aperta campagna. Per i bambini, il paradiso terrestre. Eravamo una frazione: tre case, strade di terra battuta, una corriera una volta al dì, un campanile, una scuola, un cimitero e una botteghetta da niente. Una volta che col libretto in mano (pagamento mensile) avevo chiesto a Bruno della carta igienica (ero una distinta marmocchia di città e parlavo italiano, almeno per i primi giorni) mi ero sentita rispondere: “putèa, dìghe a to mama che noialtri qua se rangémo co ‘e foje de sùca”. Operai e contadini avevano case con pavimenti di terra e materassi in paglia. I veci comandavano a bacchetta sino alla morte; le spose si sfiancavano tra campi, casa e bambini; gli uomini almeno la sera andavano in osteria e tornavano a casa alticci e a volte un po’ alterati. La domenica, tutti a messa. Eravamo un esercito di bambini: abili e senza paura, quelli del posto; imbranatissimi e invidiosi dei primi noi cittadini, che non sapevamo compiere le loro prodezze. Gli adulti ci rammentavano quanto privilegiati fossimo rispetto a Tonin, ad Aquino e alla Pierina, che poco altro conoscevano oltre la polenta. Vennero fli anni ‘60 e la storia d’Italia si riempì di violenza e di sangue. L’estate pareva immutabile dal nonno, ma il mondo stava cambiando alla velocità della luce.
Attorno casa crescevano aziendine come funghi, i compagni di gioco con tutta la famiglia, costruendo mobili, gabbie per galline e mille diavolerie, lavorando anche di domenica come pazzi e girando il mondo a fare export senza sapere una parole d’inglese. S’erano inventati il miracolo del
Nordest: nelle università americane, un “case history” da studiare. Il Veneto che emigrava era diventato ricco. Ricordi lontani? Macché, macché. Quando mi sento dire se ci risolleveremo dal coronavirus, mi torna in mente come fosse oggi il mondo della mia giovinezza, capace di saltare in una, dieci generazioni. “Noaltri veneti semo xénte che no gà paura”. Il virus, per noi, è una buona ragione per un secondo miracolo.

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